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Niente rischio bancarotta per l’Italia, ma servono riforme

I punti di forza che tengono lontano il nostro Paese dal rischio crack in una ricerca di UniCredit che però avverte: “Senza interventi strutturali possibile indebolimento”

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Perché l’Italia è diversa? Perché non rischia come la Grecia o la Spagna di dichiarare, di fatto, bancarotta? Le ragioni che ci rendono diversi sono tante e, per fortuna, solide ma comunque il sistema Italia non è completamente al sicuro e, anzi, senza interventi decisi e strutturali, che risolvano le sue storiche carenze, rischia d’indebolirsi.
Ma andiamo con ordine. Il nostro Paese è probabilmente l’ago della bilancia nell’attuale crisi europea: essendo il più grande dei paesi vulnerabili e il più vulnerabile dei grandi, la sua capacità di sopportare le attuali tensioni di mercato probabilmente determinerà se e come l’Eurozona potrà resistere alla tempesta. L’Italia rappresenta quasi un quinto di tutta l’economia dell’Eurozona e oltre un quarto del suo debito sovrano negoziabile: la sua stabilità è pertanto essenziale per la capacità dell’Eurozona di destreggiarsi nella crisi attuale.
Finora, l’Italia è stata un successo paradossale: il paese era stato a lungo considerato l’anello debole, con alcuni investitori che periodicamente si chiedevano se sarebbe alla fine uscita dall’Eurozona, ma quando ha dovuto affrontare la crisi, l’Italia si è rivelata estremamente resistente rispetto ai suoi pari “periferici”, vale a dire la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e persino la Spagna. I timori di un effetto contagio, tuttavia, si sono sentiti anche sul mercato italiano del reddito fisso e più recentemente gli spread sui titoli di stato italiani hanno risentito dell’opacità degli interventi adottati dalla Bce sul mercato del debito sovrano.
Le tensioni che hanno recentemente colpito i mercati obbligazionari italiani sono probabilmente una benedizione sotto mentite spoglie: l’Italia è veramente più forte degli altri paesi periferici, ma la sua resistenza si sta indebolendo ed è fragile; è necessaria quindi una decisa accelerazione delle riforme strutturali e fiscali per mettere il paese su basi solide e sostenibili.

Il miglioramento della competitività e l’incentivazione della crescita potenziale dovrebbero essere considerati l’indiscutibile priorità numero uno. La cronica scarsa performance di crescita dell’Italia è ben nota: il paese ha fatto registrare una costante sottoperformance rispetto alla media dell’Eurozona e ha attraversato tre fasi recessive negli ultimi dieci anni. Il primo trimestre di quest’anno si è rivelato una sorpresa positiva ma prevediamo che la crescita farà registrare una diminuzione al di sotto della media, con un’espansione del PIL reale di solo l’1% sia quest’anno che il prossimo.

In un contesto in cui il commercio globale costituisce il principale motore di crescita dell’Eurozona, la scarsa competitività dell’Italia rappresenta un grave handicap. Negli ultimi dieci anni, la competitività dell’Italia rispetto alla Germania si è ridotta del 26% sulla base del costo unitario della manodopera e del 40% sulla base dei prezzi delle esportazioni, facendo registrare una performance peggiore rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona. Questa perdita di competitività deriva prevalentemente da una scarsa performance della produttività che ha fatto registrare una riduzione effettiva pari a un complessivo 6% negli ultimi dieci anni rispetto alla crescita del 7% registrata nell’Eurozona. Tale dato è aggravato da fattori non legati al prezzo tra i quali l’intensità di manodopera relativa dell’industria italiana, gli insufficienti investimenti nel campo della Ricerca e Sviluppo, la scarsa performance nel settore dell’istruzione e della formazione e le rigidità presenti sul mercato del lavoro, dei prodotti e dei servizi.

Tale mancanza di competitività costituisce una minaccia per almeno due aspetti. In primo luogo, la scarsa produttività erode la crescita di redditi e salari, limitando pertanto la domanda interna e impedendo al paese di sfruttare a pieno la domanda esterna più forte. In secondo luogo, la scarsa competitività potrebbe contribuire gradualmente a indebolire il saldo con l’estero del paese. Se messa a confronto con gli altri paesi periferici, la posizione all’estero dell’Italia è solida con un deficit delle partite correnti appena al di sopra del 3% del PIL dello scorso anno rispetto, ad esempio, ai deficit a due cifre di Grecia e Portogallo.
Ciò a sua volta rispecchia la posizione più solida delle famiglie italiane che a differenza delle controparti periferiche non hanno accumulato notevoli livelli di indebitamento durante il periodo caratterizzato dal boom del credito. Ciò rappresenta indubbiamente un importante punto di forza, indicativo dello scarso affidamento del paese sui finanziamenti esterni; in realtà il forte risparmio delle famiglie consente di garantire che oltre il 50% del debito pubblico italiano sia detenuto a livello nazionale, un importante fattore di stabilità. Tuttavia, la bilancia delle partite correnti italiana ha subito un peggioramento lento ma costante passando da un’eccedenza di circa il 2% del PIL nel 1998 a un deficit di oltre il 3% del PIL nel 2009. Tale peggioramento rispecchia ampiamente una diminuzione dei risparmi nazionali, a sua volta generata da un marcato calo dei risparmi aziendali poiché le aziende hanno subito un significativo processo di leverage.

Come nel caso della bilancia delle partite correnti, quando consideriamo il leverage finanziario delle società italiane costatiamo che il livello attuale è rassicurante, ma la tendenza è fonte di preoccupazioni. Il rapporto debito/PIL delle imprese non finanziarie italiane è di gran lunga al di sotto della media dell’Eurozona e molto inferiore rispetto agli altri paesi periferici (solo la metà dei livelli fatti registrare da Portogallo e Irlanda); negli ultimi dieci anni, tuttavia, il rapporto tra debito delle imprese e PIL ha subito un rapido aumento con un’accelerazione un po’ più rapida rispetto alla media dell’Eurozona. La conseguente vulnerabilità finanziaria potrebbe rappresentare un ostacolo agli investimenti. È opportuno notare che mentre il settore delle famiglie è più forte, una considerazione in un certo qual modo analoga resta valida: mentre il rapporto debito delle famiglie/PIL è inferiore di un terzo rispetto alla media dell’Eurozona e meno della metà del livello degli altri paesi periferici, il tasso di risparmio delle famiglie è diminuito e lo scorso anno per la prima volta è sceso al di sotto della media dell’Eurozona.

Che cosa significa tutto ciò se consideriamo le finanze pubbliche e il debito sovrano dell’Italia? Già da qualche tempo il livello del debito pubblico italiano ha raggiunto livelli record imbarazzanti e attualmente se ne prevede una stabilizzazione appena al di sotto del 120% del PIL nei prossimi due anni. Il governo è ben consapevole che l’elevato livello di indebitamento limita il raggio d’azione della politica fiscale discrezionale: lo scorso anno non sono stati forniti incentivi fiscali e in tal modo il deficit di bilancio al 5,3% del PIL si è attestato a un punto percentuale pieno al di sotto della media dell’Eurozona; negli ultimi tempi il governo ha annunciato ulteriori misure di stretta monetaria pari all’1,6% complessivo del PIL nei prossimi due anni per riportare il deficit sotto la soglia del 3% del PIL entro il 2012.

Ma, soprattutto, l’Italia dovrebbe ora accelerare gli sforzi per migliorare flessibilità, produttività, competitività e crescita. Ciò è necessario anche per garantire la sostenibilità di bilancio, ma principalmente per garantire un miglioramento duraturo del tenore di vita e dei redditi. Questo a sua volta consentirà di invertire l’indebolimento in corso dei principali punti di forza dell’Italia: il forte risparmio privato e la robusta posizione all’estero. La crisi europea offre un invito all’azione e la tempistica è ideale: i punti di forza dell’Italia sono ancora chiari, l’Italia è ancora diversa rispetto agli altri paesi periferici ma la differenza si sta erodendo e la tendenza deve essere invertita adesso.


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