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Vespignani: "Una sentenza che lascia allibiti"

L'imprenditore civitavecchiese condannato in primo grado a 3 anni e 8 mesi per il crollo della Bmw di Viterbo: "Ricorrerò in appello perché ho la coscienza a posto, ho operato secondo le prescrizioni tecniche e voglio giustizia. Assurdo che sia stato assolto il progettista quando oltre 20 periti hanno dimostrato le sue responsabilità"

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CIVITAVECCHIA – «Una sentenza che lascia allibiti, soprattutto nella parte in cui assolve il progettista dell’opera, visto che gli oltre 20 periti che si sono succeduti in aula hanno individuato proprio nel progetto l’errore tecnico che poi ha portato al crollo». Luigi Vespignani, dopo la condanna in primo grado a 3 anni e 8 mesi, insieme alla sorella Simonetta, non ci sta ad essere dipinto come uno dei principali responsabili della morte di Fabrizio Feuli, avvenuta il 22 aprile 2004 nel crollo del capannone della concessionaria Bmw di Viterbo.
«In questi sei anni e mezzo – spiega Vespignani – credevo che la dinamica e le cause dell’accaduto fossero ormai chiare per tutti, invece pare proprio che per il giudice non sia stato così. Tutte le perizie, comprese quelle degli esperti del pubblico ministero, hanno dimostrato che il problema si è creato nel ‘‘nodo’’, ossia nell’appoggio tra la trave esistente e quella nuova: non ha retto, cadendo per il proprio peso, con 125 kg, quando avrebbe dovuto portarne 375 kg».
«Al sottoscritto – prosegue Vespignani – è stato imputato un aggravio di circa 10 kg al metro quadrato rispetto alla quantità di cemento prevista, in tutto 16 metri cubi in più, oltre al fatto di non aver puntellato il solaio, che però era una struttura autoportante, come previsto dal progetto, e quindi non aveva necessità di essere puntellata. E comunque era tutto previsto nel progetto, io ero un semplice esecutore, come del resto il mio subappaltatore, che è ancora più assurdo che sia stato condannato a 3 anni quando non ha svolto il minimo ruolo nella costruzione, visto che doveva occuparsi di aspetti assolutamente non attinenti alla tenuta della struttura».
«E siccome – prosegue l’imprenditore civitavecchiese, oggi quarantunenne, difeso dal professor Roberto Zannotti – tutte le verifiche svolte hanno dimostrato che ho operato secondo le prescrizioni tecniche, perché quanto mi viene addebitato non è certo la causa dell’accaduto, mi sento con la coscienza a posto e posso permettermi di criticare la sentenza. Anche perché il pm aveva chiesto l’assoluzione di mia sorella, che figurava come amministratrice della società, di cui però io ero procuratore generale. Che senso ha condannarci entrambi? Forse perché, insieme al proprietario della concessionaria sono l’unico ad essere assicurato. Almeno il risarcimento dei danni potrà essere pagato. Così però sono state condannate sei persone per scagionarne una: se infatti si fosse stabilito l’errore progettuale tutti gli altri sarebbero stati assolti. Di pasticci ne sono emersi diversi: il giudice stesso prima della sentenza ha posto il problema della propria competenza, perché probabilmente il giudizio sarebbe dovuto avvenire in sede collegiale e non monocratica. E in ogni caso queste condanne penali non passeranno mai in giudicato: fra 8 mesi i reati saranno prescritti. Ma nel processo di appello, che sarà chiesto anche dal Pubblico Ministero, cercheremo di arrivare comunque a dimostrare l’assoluta mancanza di colpa da parte nostra. Voglio giustizia, perché nessuno ridarà la vita a quel povero ragazzo, né ci sono soldi che possono in qualche modo lenire il dolore dei familiari, ma deve essere altrettanto chiaro che quanto è successo non è dipeso da me. Questa tragedia ha segnato anche la mia vita: intanto lì sotto non ci doveva essere nessuno, avevamo richiesto alla concessionaria di impedire che ci fosse qualcuno durante le fasi più delicate della posa e delle gettate. Poi tutto il processo, oltre all’enorme danno economico personale e per la mia impresa, visto che il lavoro peraltro era praticamente terminato. Fino all’amarezza di una condanna che così appare profondamente ingiusta: se fossimo stati condannati tutti, tranne mia sorella, come chiesto dal pm l’avrei trovato più giusto, per poi cercare di far valere le mie ragioni in appello. Ma così è tutto illogico, ala luce di quanto emerso dalle perizie. Non dico questo per scagionarmi o evitare chissà cosa: se avessi avuto il minimo dubbio che la colpa potesse essere mia non avrei alcuna remora ad ammetterla. Ma hanno analizzato tutto quello che c’era da analizzare, era tutto in regola, nei materiali utilizzati e nel modus operandi».
Oggi Luigi Vespignani è un uomo e un imprenditore segnato da quanto accaduto negli ultimi anni. «Ma vado avanti, perché ho la coscienza a posto e la gente conosce me e la mia impresa, che ha una storia di tre generazioni, per quello che siamo».


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