Arriva sul palco del Massimo Freccia ‘‘Bye Bye Gillo’’
LADISPOLI – Questa sera e domani alle 21.30 all’Auditorium Massimo Freccia di Ladispoli andrà in scena “Bye Bye Gillo”, un monologo recitato dall’attore di Ladispoli Simone Giacinti sotto la regia di Elena Siri, prodotto da “La Compagnia Italiana di Prosa- Genova”. Il ricavato della serata sarà interamente devoluto al progetto sociale “Nessuno si Salva da Solo”, portato avanti da Animo Onlus, che a Ladispoli aiuta più di 400 famiglie attraverso la raccolta e distribuzione di abiti e accessori per bambini dai 0-12 anni.
Siamo andati a parlare con Simone Giacinti dello spettacolo che venerdì porterà in scena per la prima volta nella sua città.
“Bye Bye Gillo” si appresta ad andare in scena all’Auditorium Massimo Freccia di Ladispoli. Simone, ci racconti da dove viene l’idea per questo spettacolo?
«Viene dal testo originale in arabo di un autore marocchino, Taha Adnan, diffuso grazie ad un progetto dell’Unione Europea volto alla creazione di una nuova drammatugia araba scritta da autori arabi-europei, cioè arabi che vivono in Europa. Tre di loro hanno vinto la pubblicazione in un libro dei loro testi e uno di questi è capitato nelle mani della regista Elena Siri che, dopo averne letto la traduzione in italiano, mi ha chiamato e mi ha detto che sarei stato perfetto per la parte di Gillo.
La compagnia è di Genova, sono venuti a Roma per parlarne e leggere il testo insieme. Chiaramente ne sono stato molto contento».
Dentro la messa in scena di quest’opera c’è una mescolanza geografica niente male
«La storia inizia in volo. C’è questo ragazzo marocchino, Hal-Gilali, che però si fa chiamare Gillo- che sarei io- che viene rimpatriato su un volo in partenza da Bruxelles verso Marrakech. Durante il viaggio Gillo ripercorre tutta la sua vita, da quando la madre lo manda via dal Marocco dopo la morte del padre, passando per l’iniziale felicità dell’arrivo a Bruxelles, dove invece verrà trattato come un immigrato di serie B persino dallo zio.
Parte sognando ad occhi aperti Bruxelles come il paese delle bionde, del formaggio e del cioccolato e ritorna dopo aver constatato una realtà molto diversa. Il suo è quindi un viaggio fisico, ma soprattutto mentale in cui riaffiorano i momenti più importanti della sua vita».
Un racconto di immigrazione, rimpatrio ed esclusione in cui l’elemento fisico di questa esclusione non è un muro, come forse ci si aspetterebbe, bensì l’aria, attraversata da un aereo.
«La cosa curiosa è che due anni e mezzo fa parlavamo di questo testo ed io continuavo a dire che c’era qualcosa che non mi tornava nella scelta di Bruxelles. Feci la proposta di riadattarlo ambientandolo a Parigi, anche perché in quel momento in Italia si pensava a Bruxelles soltanto come la sede del Parlamento europeo. Poi lo riprendemmo in mano e dopo un mesetto in cui cercavamo di capire come riadattarlo, cosa non facile perché il testo è denso di riferimenti al Belgio e a Bruxelles, ci fu l’attentato a Charlie Hebdo. Ricordo che la regista mi ha telefonato dicendomi “corri metti il telegiornale”, sono tornato a casa e da lì, ho acceso e da lì in poi non si è fatto altro che parlare di Molenbeek.
Devo dire che fino a quel momento ero del tutto all’oscuro dell’esistenza di quel quartiere, non pensavo minimamente che una delle più grandi comunità arabe e anche marocchine potesse trovarsi lì nel cuore di Bruxelles. Dopo quei fatti rileggere l’opera di Taha Adnan ha assunto tutto un altro significato».