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Autismo: nessuna colpa alla madre

Autismo: nessuna colpa alla madre

Sui social una donna, la cui nuora ha un figlio affetto da tale disturbo cita la teoria della ‘‘mamma frigorifero’’ e sottolinea l’utilità di un allontanamento dal minore. Professor Vicari, responsabile della Neuropsichiatria del Bambino Gesù: «La comunità scientifica ha assolutamente sconfermato questa ipotesi. In questi casi è auspicabile che i genitori facciano squadra». Stefania Stellino, presidente Angsa Lazio: «Si sono avvicinate alla nostra associazione tante persone che hanno avuto problemi, soprattutto da parte delle nonne paterne, spesso a causa di letture sbagliate»  

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di GIULIANA OLZAI

CERVETERI – Lo stigma della ‘’madre frigorifero’’ ha tormentato generazioni di donne e ancora oggi in alcuni contesti il pregiudizio è duro a morire. Ed è proprio a Cerveteri che una suocera riverbera la teoria di Bettelheim, psicoanalista austriaco morto peraltro suicida, assertore dell’azione nefasta della madre sulla crescita del figlio tanto da renderlo autistico. «Per i bimbi, che hanno le cosiddette ‘’mamma frigorifero’’ – scrive sui social la donna –  sintomo di tale patologia, è utile l’allontanamento della mamma per una crescita più serena ed equilibrata dei suddetti minori. Purtroppo queste cosiddette mamme non capiscono, non lo sanno e non ci possono pensare … – concludendo con – ‘’povereee!» (agg. 28/01 ore 10.30) segue

LA STORIA. Ovviamente queste parole hanno colpito nel profondo non solo la nuora ma tutte le mamme della nostra comunità con figli ai quali è stata diagnosticata tale patologia. Queste mamme che vivono quotidianamente la problematica si sono risentite perché palesemente discriminate, tanto da chiedersi:  ‘’E’ un fatto singolo o è la comunità intera di Cerveteri che ci discrimina?’’.
Alba, nome di fantasia, 38enne mamma di due figli, di cui uno autistico non ci sta a questa infida e sottile forma di violenza della suocera e denuncia il fatto alla nostra redazione. «La diagnosi è arrivata un po’ tardi – dice Alba – fino a quattro anni il bambino parlava e si esprimeva bene, anche se era un po’ più particolare nel senso che tendeva a stare da solo. A sei anni si è aggravato e c’è stata una regressione nel linguaggio e nel comportamento. L’ultima volta che mi ha chiamato mamma aveva sette anni. Ora ne ha quattordici, chissà se mi chiamerà ancora. Io non perdo la speranza». 

Alba, dopo la diagnosi al figlio, si è messa in discussione. Ha fatto terapia per quattro anni «per cercare – dice – di accettare meglio la patologia e capire in modo più adeguato come aiutare mio figlio». Terapia però non seguita dal padre del bambino. Ma si sa gli uomini spesso con la scusa del lavoro e del poco tempo a disposizione tendono a delegare. La coppia vive separata in casa e sono iniziate le pratiche per la separazione, motivo per cui gli animi in quest’ultimo periodo si sono un po’ esasperati. Alba non lavora e peraltro ha qualche difficoltà visto che nonostante il reintegro delle ore dell’assistenza educativa culturale, dopo i tagli all’inizio dell’anno scolastico, è costretta a ritirare il figlio qualche ora prima perché non sono state assegnate tutte le ore che il Comune avrebbe dovuto garantire. (Agg. 28/01 ore 11.30)

PARLA L’ESPERTO. Vista la delicatezza della patologia abbiamo interpellato Il professor Stefano Vicari, responsabile dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile del Bambino Gesù che ci ha concesso un’intervista in esclusiva.

Quali sono le cause dell’autismo? «L’autismo è un disturbo neurobiologico, cioè un disturbo del neurosviluppo causato da una alterazione a livello cerebrale biologicamente determinata, quindi c’è una componente genetica su  cui dei fattori di rischio ambientali possono svolgere un ruolo. Un pò questo vale per tutte le malattie. Cioè se noi nasciamo con una predisposizione per l’infarto, per esempio, e poi conduciamo una vita particolarmente sregolata in termini di alimentazione e di stress, il rischio di .infarto aumenta notevolmente. Quindi l’autismo è una malattia che ha una base genetica tant’è che c’è una familiarità del disturbo. Le do un dato. Se una coppia ha già un figlio autistico e fa un secondo figlio, la probabilità che questo sia autistico non è più dello 1% come è nella popolazione in generale, ma sale fino al 18%. Quindi è un disturbo che ha della basi biologiche, una malattia geneticamente determinata su cui l’ambiente svolge un ruolo, come dire,  favorente o meno alla comparsa del disturbo».

Cosa ne pensa delle teorie che colpevolizzano le madri? «La teoria della ‘’mamma frigorifero’’ o quelle di tipo psicologico sono tutte teorie che sono state sconfermate. Appartengo agli anni 50. Nel frattempo sono passati più di sessant’anni e si sono fatti progressi nella scienza che documentano come la relazione tra bambino e mamma non ha un ruolo determinante nella comparsa del disturbo dello spettro autistico. Sono decenni che non se ne parla più. Tante persone purtroppo credono a qualunque cosa leggano su internet. Io parlo dei dati della comunità scientifica che assolutamente ha sconfermato questa ipotesi. Si dice anche che i vaccini facciano venire l’autismo, ma sembra che qui ognuno apre bocca e piglia fiato».

Dopo la diagnosi segue un percorso formativo per i genitori? «Questo è auspicabile, nel senso che è consigliato nelle linee guida, poi se questo avviene o meno dipende molto dall’organizzazione anche dei servivi sanitari. In Italia la situazione  è molto a pelle di leopardo. Ci sono regioni più virtuose e altre invece in cui si fa una gran fatica. Certamente però è necessario che i genitori siano guidati nel percorso di accettazione della diagnosi, nell’impostazione del trattamento e pertanto devono essere coinvolti nella terapia».

Dalla sua esperienza emergono situazioni in cui un genitore segue un percorso e l’altro no? «Noi coinvolgiamo parecchie persone. Però c’è di tutto. E’ come quando uno ha un tumore. Chi decide di fare chemioterapia e chi fare altro. Però la necessità che i genitori siano coinvolti nel trattamento è fondamentale».

Bettelheim definiva i bambini autistici una ‘’fortezza vuota’’. Cosa ne pensa? «Mi sembra una definizione addirittura cinica. Innanzitutto sono bambini che hanno un disturbo mentale che causa la tendenza all’isolamento. Ma molti bambini autistici hanno un’intelligenza assolutamente nella norma, cioè circa il 50% di loro ha anche un ritardo mentale ma l’altro 50% un’intelligenza assolutamente normale. Mi sembra una definizione offensiva e peraltro poco rispettosa».

C’è qualche altro aspetto importante che lei ritiene di evidenziare? «Io credo che di fronte a queste situazioni sarebbe molto auspicabile che i genitori facciano squadra per sostenere lo sviluppo del bambino, rinunciando a utilizzare in modo strumentale il disturbo per farsi guerra l’uno con l’altro, ancor di più visto l’episodio, che i nonni facciano un passo indietro perché chi ha la responsabilità genitoriale sono i genitori e non i nonni».

Interviene sull’argomento anche  la dottoressa Stefania Stellino, responsabile regionale dell’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici (Angsa) Lazio Onlus, che nel 2016 è stata insignita del prestigioso premio ‘’Eudonna all’eroismo femminile’’.

Quale, secondo lei, la cosa fondamentale che va messa in evidenza? «L’autismo è una sindrome non una malattia che ha delle cause multifattoriali che non hanno assolutamente nulla a che fare con il rapporto con i genitori e tanto più con la mamma. Ha un’origine genetica e non ha assolutamente alcun valore qualsiasi tipo di ipotesi che centri col rapporto che si ha col bambino quando è piccolo, quello che si poteva fare col bimbo, magari appena nato, sono tutte cose che non hanno nessun riscontro scientifico. La componente psicologica nell’autismo non esiste. Esiste un problema a relazionarsi da parte della persona che ha questo tipo di condizione. Quindi chi ha l’autismo ha dei problemi a relazionarsi con l’altro, dei problemi di comportamento che però non hanno nulla a che fare con la persona che gli sta vicino. Questo è la cosa fondamentale che va messo in evidenza. La mamma non ha nessuna colpa, come non ha nessuna colpa il papà. Perché ci sono anche casi in cui si cerca di dare la colpa al papà perché non è presente. Qualsiasi teoria psico-dinamica che abbia a che fare con l’empatia o meno che si crea con la persona, è assolutamente campata in aria perché non ha alcun tipo di valenza scientifica. Dal punto di vista della patologia se di colpa si può parlare è da attribuire  ad un neurosviluppo che non è avvenuto in maniera corretta».

Sulla base della sua esperienza capita che delle coppie abbiano disintegrato il loro rapporto? «Si, si ci sono soprattutto tanti padri che si allontanano proprio per non stare col figlio. Anche se è più raro, c’è qualche caso relativo alla mamma che si è allontanata perché non accettava la condizione del figlio. Si tratta di allontanamenti definitivi dovuti ad un rifiuto della condizione».

Casi di colpevolizzazione della mamma? «Ci sono capitati diversi casi di persone che si sono avvicinate all’associazione che hanno avuto questo problema, soprattutto da parte delle nonne paterne. In tantissime a volte velatamente danno la colpa alle nuore. Si parte un po’ per partito preso. Tu nonna fai delle letture spesso ‘’sbagliate’’ ed è un attimo poi addossare la colpa alla mamma. Tantissimi dei nostri soci si sono lamentati di situazioni simili»,

Dopo la diagnosi capita spesso che uno dei genitori non segua un percorso? «Assolutamente si. Non tutti fanno un percorso. In tanti casi è solo un genitore che lo fa, soprattutto la mamma. Tantissimi soci hanno questo problema. Sono pochi che fanno il percorso insieme, diciamo per tanti motivi non soltanto di scelta. Alcuni si trincerano dietro al fatto del lavoro, degli impegni insomma ci sono vari motivi. In alcuni casi è perché delegano e in altri perché effettivamente sarebbe difficile per tutti e due seguirlo. La situazione non è semplice è alquanto complicata. Aggiungo  che nei centri dove si fa riabilitazione c’è un servizio di consulenza genitoriale, però non tutti se ne avvalgono».

Che ruolo dovrebbero svolgere i servizi sociali? «In teoria un ruolo fondamentale e cardine soprattutto nel momento in cui si scrive il progetto di vita del bambino e dovrebbero cercare fare da raccordo sulle varie istituzioni che devono interagire con la persona. Da una parte c’è la scuola, almeno fino ai 18 anni, e dall’altra ci sono le varie  situazioni: lo sport, la terapia fuori casa, tutto ciò che è vita, la vita sociale quindi cercare una situazione di socializzazione, poi c’è il lavoro per chi può o comunque una soluzione dopo la scuola. Tutto questo dovrebbe essere comunque un lavoro di rete e i servizi sociali si occupano dell’assistenza familiare e l’assistenza a scuola. Quindi i servizi sociali dovrebbero essere quelli che conoscono meglio la persona e possono essere parte operante nella stesura del progetto di vita. Il problema è che quasi nessuno riesce ad avere un progetto di vita degno di questo nome. Tutto parte dai servizi sociali. In certe situazioni di fragilità sono fondamentali».

C’è qualche altro aspetto importante che lei ritiene di evidenziare?  «Un fatto che si può mettere in rilievo e che ultimamente molto spesso i genitori cadono nelle trappole di chi promette una ‘’guarigione’’. Purtroppo ci sono tanti ‘‘guru’’, chiamiamoli meglio millantatori, che promettono soluzioni, a volte anche pericolose, facendo leva sulla difficoltà di accettazione della diagnosi del figlio e sulla fragilità genitoriale. Poi un altro problema è creato da coloro che si spacciano per operatori qualificati quando magari hanno fatto solo un corso di 30 ore, assolutamente inadeguato. Noi come associazione lavoriamo anche per difendere il diritto ad un intervento qualificato».    (agg. 28/01 ore 13.30)


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