Il commento al vangelo. La gloria dell’amore
IV domenica di Quaresima
di Don Ivan Leto
Gv 3,14-21
Eccoci nuovamente di fronte a un altro brano del vangelo giovanneo, a un testo per molti aspetti difficile: Giovanni, infatti, ha una visione che va colta al di là di quello che scrive. Giovanni è stato testimone della passione e morte di Gesù sul Golgota, ha visto la sofferenza di Gesù, il disprezzo che egli subiva da parte dei carnefici e soprattutto quel supplizio vergognoso e terribile, “crudelissimum taeterrimumque supplicium”, come lo definisce Cicerone, che era la croce. Ha visto questa scena con i suoi occhi ma, dopo la resurrezione di Gesù, nella fede piena, giunge a leggerlo in modo altro rispetto ai vangeli sinottici. Anche il quarto vangelo attesta che per tre volte Gesù ha parlato di questa necessitas, ma lo fa con un linguaggio altro: ciò che nei sinottici è infamia, tortura, supplizio in croce, per Giovanni diventa invece un “innalzamento”, cioè una gloria. Per Giovanni “essere innalzato” è anche “essere glorificato”. Per questo Gesù dice anche: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo”, ossia lo avrete materialmente messo in croce, “allora conoscerete che Io Sono “egó eimi:”, che io sono come Dio. Nel quarto vangelo passione e Pasqua sono lo stesso mistero, unico e inscindibile, e l’ora della passione è l’ora dell’epifania dell’amore.
Sì, dobbiamo confessare che questo sguardo giovanneo sulla croce non è facilmente accettabile da noi umani, eppure questa è la vera e profonda comprensione della croce di Gesù: la croce è stata materialmente un supplizio, ma è stata anche un alzare il velo su come Gesù “ha amato i suoi fino all’estremo”; crocifisso a mezz’aria egli riconciliava cielo e terra. Questa è la lettura paradossale della croce fatta da Giovanni. Questo è il Vangelo che Gesù rivela a Nicodemo, un esperto delle Scritture, un “maestro in Israele”. Per cercare di spiegargli questa “necessità” della passione e morte del Messia, Figlio dell’uomo, Gesù tenta un paragone con un fatto avvenuto a Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Secondo il libro dei Numeri, gli ebrei furono attaccati da serpenti mortiferi, e allora Mosè innalzò su un’asta un serpente di bronzo: chi lo guardava, anche se morso dai serpenti restava in vita, era salvato (cf. Nm 21,4-9). Viene qui adombrato il mistero dell’incredulità, che non è rifiuto di una dottrina, di un’idea o di una morale, ma è qualcosa di molto più radicale: è rifiuto della fiducia, rifiuto della speranza, rifiuto dell’amore. Nel quarto vangelo la fede e il credere sono sempre un operare nell’amore, come Gesù dirà: “Questa è l’opera, l’azione richiesta da Dio: credere in colui che egli ha mandato”.
Ecco dunque la via tracciata di fronte a noi: chi fa la verità, cioè sa rispondere all’amore con azioni, manifesta che queste azioni sono operate da Dio stesso in lui. Così il credente vive già ora la “vita eterna”.