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Omicidio Vannini, la pm D'Amore: ''Tutti erano a conoscenza che è stato sparato un colpo d’arma da fuoco''

Omicidio Vannini, la pm D'Amore: ''Tutti erano a conoscenza che è stato sparato un colpo d’arma da fuoco''

La pm Alessandra D’Amore nel suo ricorso in appello elenca le condotte attribuibili a tutti i componenti della famiglia Ciontoli

di GIULIANA OLZAI

CERVETERI – Un punto senz’altro importante è chi era presente durante il colloquio tra Antonio Ciontoli e l’infermiera Ilaria Bianchi giunta presso l’abitazione con l’operatore Antonio Calisti nel corso del quale il capofamiglia riferiva che mentre si trovava con Marco nel bagno che faceva la doccia e discutevano di calcio il ragazzo era scivolato e si era ferito su un pettine a punta.  A riguardo si evidenzia un errore grossolano in sentenza che viene smentito dal verbale di trascrizione e che non è sfuggito alla pm D’Amore. In sentenza si riporta che non è del tutto chiaro chi fosse realmente presente durante il colloquio osservando che l’infermiera ha riferito della presenza anche degli altri familiari, mentre Calisti ha ricordato di aver avuto come unico interlocutore il capofamiglia. Al contrario dal verbale di trascrizione emerge che Calisti ha dichiarato che accanto ad Antonio si trovavano la padrona di casa, le due ragazze e il figlio, i quali non si sono mai allontanati durante il colloquio. La versione dell’operatore differisce da quella dell’infermeria solo nel passaggio relativo a  Viola Giorgini in quanto Bianchi non ricordava la sua presenza. 
«I congiunti di Ciontoli  (contrariamente a quanto affermato, ancora una volta mentendo, in sede dibattimentale, quando hanno negato di aver assisto al colloquio tra Antonio e Bianchi)  – scrive la pm D’Amore – avallarono quindi con la loro presenza, seppur silente, la versione fornita, in totale adesione con l’uomo, cui offrirono la certezza di poter confidare sul loro pieno appoggio e sulla totale condivisione del suo operato, così da rafforzarne il proposito criminoso. Si tratta di un comportamento chiaramente non riconducibile ad una mera e casuale presenza nel luogo del crimine».   E questo perché secondo l’accusa «scegliendo di stare accanto al padre e al marito, supportandolo con il silenzio mentre riferiva eclatanti menzogne all’infermiera che avrebbe potuto attivare l’immediato soccorso di Marco e salvargli la vita se solo avesse conosciuto la verità, gli imputati hanno lucidamente deciso di approvare e condividere l’operato del predetto, al quale hanno fornito stimolo all’azione ed un maggior senso di sicurezza».
Molte delle condotte citate in sentenza riconducibili alla sola mano e alla sola mente del capofamiglia, al contrario secondo la tesi accusatoria, appartengono anche agli altri imputati o comunque avvennero in loro presenza.  Tra queste si evidenzia che tutti erano a conoscenza che è stato esploso un colpo d’arma da fuoco; tutti hanno visto la ferita sanguinante; non ha mentito solo il capofamiglia al personale del 118 ma anche Federico nonché la madre, che non solo omise di dire la verità, ma impedì i soccorsi annullando la chiamata. Anche la paternità della menzogna del pettine a punta non può essere attribuita solo al capofamiglia in quanto come già evidenziato i familiari con il loro silenzio avallarono tale ricostruzione; infine non solo Antonio ma anche i familiari mentirono sistematicamente alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero e alla Corte di Assise «fornendo ridicole e menzognere versioni, frutto di evidente previa concertazione , provata dalle intercettazioni ambientali».  

 

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